LETTERA DI NATALE DEL MINISTRO PROVINCIALE
Palermo, 5 Dicembre 2017
Prot. 535/2017
Ai Frati della Provincia
Alle Clarisse di Sicilia
Loro Sedi
Carissimi fratelli e sorelle, il Signore vi doni la Sua pace!
Nello scorso mese di settembre, insieme ai Professi Temporanei e al loro Maestro fra Giuseppe Di Fatta, a fra Giuseppe Arrigo, fra Stefano Cammarata e fra Antonio Iacona, Commissario di Terra Santa, ho avuto la grazia di vivere un pellegrinaggio nei luoghi santi.
La nostra guida, fra Antonio, ci ha accompagnati con passione, sapienza evangelica e conoscenza dei luoghi, facendo divenire questopellegrinaggio un’esperienza molto arricchente e spiritualmente nutritiva: un vero pellegrinaggio.
È da questa esperienza che vorrei trarre, questa volta, una breve e semplice riflessione per formulare a tutti voi i miei auguri natalizi.Gli studiosi, grazie alla scienza archeologica e alle conferme avute dalla tradizione, hanno compiuto un cammino a ritroso nei secoli che, con buona approssimazione e in buona parte, gli ha permesso di identificare i luoghi di evangelica memoria dove noi cristiani abbiamo le nostre origini.
Con un po’ di immaginazione bisogna mentalmente spogliarli da tutti quei rimaneggiamenti architettonici e stilistici che nei secoli si sono succeduti sovrapponendosi e così, anche noi oggi, possiamo vedere, toccare e con devozione baciare i luoghi che ci hanno resi familiari a Dio. Tali luoghi sono visitati da milioni di pellegrini che, da secoli, ininterrottamente, incuranti del pericolo e della fatica, vi si recano animati da sentimenti di profonda venerazione e trepidazione.
Essere pellegrini ci pone in comunione con tutti loro, ma ci immette anche nella concretezza degli spazi attraverso i quali, come fossero provvidenziali fessure, il Dio della storia si è introdottonella nostra storia per scrivere insieme a noi una nuova storia. L’entrare in fisico contatto con questi luoghi ci aiuta a maturare una più viva coscienza che Dio non è un’astrazione ma una realtà, a percepirlopresente e agente nella storia. Coinvolgere, infatti, nel nostro itinerario di fede, gli stessi “sensi” dai quali abbiamo attinto l’esperienza del mondo e il collocare i fatti evangelici all’interno delle coordinate spazio temporali che pure “contengono” il nostro esistere, ci aiuta nel far evolvere l’idea che abbiamo di Dio in un sentimento di Dio, ovvero, in un certo qual modo, a percepire sensibilmente Dio; sentirlo presente, realizzare, con un guizzo della coscienza, il senso di quanto scriveva il Profeta: «Non temere, perché Io sono con te» (Is41,10).
Una tale conversione si accompagna al passaggio da una fede dottrinale a una esistenziale e ci avvicina maggiormente alla verità su Dio. Più “verosimilmente”, infatti, di Dio si può avere il sentimento, il sentore, che non l’idea, poiché l’idea circoscrive la persona, mentre il sentimento ne rivela la presenza, lasciandola nella sua interezza e indeterminazione. È per questo che san Gregorio Nisseno parla della più alta forma di conoscenza di Dio come di un “sentimento di presenza”. Ovviamente, il “luogo”proprio per maturare un tale passaggio rimane la Liturgia; qui, infatti, gli eventi salvifici si attualizzano sacramentalmente e di questo noi diveniamo testimoni con la totalità dei nostri sensi, poiché il celebrare liturgico ci implica e ci coinvolge in termini di vista, udito, gusto, tatto e anche olfatto.
Il sentimento del quale qui si parla è lungi dall’identificarsi con l’accezione romantica o pietistica spesso attribuita a questa parola, piuttosto, un tale sentire, viene a costituirsi con la maturazione della fede sulla reale incarnazione di Dio, sul suo essersi fatto vero uomo, quindi conoscibile e capace di conoscerci. Così il salmista dice di sentirsiconosciuto da Dio: «Signore tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri ...» (Sal 139) e Francesco di Assisi, nelle Lodi di Dio Altissimo, altro non fa che cantare il suo sentiredi Dio, come lui lopercepiva, i sentimenti che in lui suscitava Colui che aveva scoperto essere sensibilmente presentenella sua vita. L’andare pellegrini nei luoghi santi ci aiuta a comprendere anche un altro aspetto della nostra fede, al quale voglio ora accennare e che costituisce il presupposto di un autentico itinerario di fede cristiana. La Liturgia ci fa accostare al mistero del Natale riguardandolo da diverse prospettive; tra queste Cristo luce del mondo e la sua nascita come manifestazione della luce è lo spunto teologico più arcaico e più presente, specialmente nella messa di mezzanotte, ma certamente non l’unico.
Un ulteriore e fondamentale aspetto della spiritualità e della teologia del Natale ci viene offerto dall’antifona d’ingresso alla messa dell’aurora. Questa applica all’evento dell’Incarnazione il celebre passo del libro della Sapienza: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il Tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale» (Sap 18,14-15, nella versione liturgica). Il senso dell’affermazione biblica non è “venne la Parola onnipotente perché c’era un profondo silenzio”, ma piuttosto: “c’era un profondo silenzio perché veniva la Parola onnipotente”. Nella Sacra Scrittura si distinguono due specie fondamentali di silenzio: un silenzio che possiamo chiamare ascetico o naturale e un silenzio che, a partire dalla sua causa, possiamo chiamare soprannaturale.
Il primo è il risultato di un’educazione, di un’ascesi che l’uomo decide di abbracciare al fine di favorire la sua capacità di ascolto di Dio, il suo entrare in contatto con Lui; l’altro, invece, è il silenzio che consegue all’essersi trovato, in una qualche modalità, al cospetto di Dio. Quest’ultimo è il silenzio di Maria che, molto più di un semplice tacere, diviene meraviglia, stupore, l’adorazione di chi è sopraffatta dalla realtà con la quale è venuta a contatto. L’interpretazione più vera del silenzio di Colei che «da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore»(Lc 2,19) è quella che si trova dipinta sul volto delle antiche icone bizantine. In queste, la Theotokos, la Madre di Dio, ci appare immobile, con lo sguardo fisso, gli occhi spalancati, come chi ha visto cose che non può ridire e udito «...parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (2Cor 12,4).
Le ultime grandi profezie messianiche, un tale silenzio lo intimano con forza: «Taccia ogni mortale davanti al Signore, poiché Egli si è destato dalla sua santa dimora»(Zc 2,14.17). San Gregorio Nazianzeno chiama un simile silenzio “Inno di silenzio”, anticipando così la Parola cara alla Liturgia della Chiesa: «Davanti a Te, la miglior lode è il silenzio!»,«Tibi silentium laus!» (Sal 65,2, Testo Masor).Se, con fede e devozione, ci accostiamo ai luoghi in cui il divino si è fatto prossimo all’umano, ancora questi luoghi evocano in noi questo riverenziale silenzio e ci aiutano a cogliere qualcosa di quell’ incredibilesintesi che vede Colui che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (1 Re8,27)” coesistere con chi «viene ad abitare con gli uomini sulla terra» (cfr. 2 Cr 6,18). Lo stesso autore sacro, seppure in forma retorica, evidenzia l’incredibilità dell’annunzio con il porre a se stesso la domanda: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra?» (1 Re 8,27).
La lieta notizia, o Vangelo, che «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14) e che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture» (1Cor15,3-4) può essere accolta come storica e reale solo recuperandone la sua dimensione “sacrale”, accostandosi ad essa con la chiara coscienza di trovarsi al cospetto di una “lieta notizia” che appartiene al piano della rivelazione e non a quello dell’umana acquisizione. Non è questa una conoscenza che può provenire dal basso, «dalla carne e dal sangue» (Cfr. Mt 16,17). Un cuore capace di accoglierla è solo di chi, in devoto e fiducioso silenzio, sa attendere che il Signore, così come fece con Lidia, donna della città di Tiàtira (cfr. At 16,14), apra il suo cuore al solenne e incredibile annunzio.Il Kerigmaapostolico ha come suo essenziale carattere l’essere assertivo e autoritativo, non discorsivo o dialettico; ilprimo annunzio non argomenta, non connette discorsi in base a principi logici, non fornisce prove, si può solo accogliere oppure non accogliere. Se, con la grazia di Dio, lo si accoglie, allora il Kerigma manifesta anche il suo carattere esplosivo o germinativo, dando origine ad una molteplicità di implicazioni morali, trasversali a tutti gli ambiti della vita, che a differenza del “primo annunzio” richiedono di essere argomentate, discusse e approfondite all’interno del dibattito teologico che esse stesse suscitano.
Ma «capita ormai non di rado, che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede nei suoi fondamentali contenuti kerigmatici, come un presupposto ovvio. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato» (cfr. Benedetto XVI, Motu proprioLa porta della fede, 2).Paradossalmente, quindi, si “disquisisce” su problematiche inerenti alla fede non radicandole su quanto gli apostoli annunziano come accadutoe sulle conseguenze, anche antropologiche, che a questo accadimentosi connettono.San Giovanni Paolo II, nella Novo Millenio Ineunte,scrive che «nel mistero dell’Incarnazione sono poste le basi per un’antropologia che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi verso Dio stesso, anzi verso il traguardo della divinizzazione...» (n. 23). Sullo stesso piano si pone, tra i tanti, anche un altro recente intervento magisteriale: «La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano» (Francesco, Evangelii Gaudium, 278).
Ma c’è da chiedersi quanto tali visioni ci appartengano e di conseguenza, quanto di queste, se ne faccia oggetto di annunzio.Forse si parla poco del novum evangelico, appiattendosi piuttosto su di un annunzio che scade in moralismo, oppure, in un relativismo del tutto estraneo al Kerigma apostolico. Bisogna chiedersi se, nella nostra evangelizzazione, si sia del tutto liberi dalla paura di esporsi all’incomprensione o dall’essere additati come persone “semplici e ingenue”. Una tale paura, se c’è, porta ad annunziare timidamente il Kerigma e a privilegiare piuttosto categorie concettuali meno incredibili e più omogenee con la cultura dominante. Ma allora, il nostro evangelizzare rischia di refluire in una fondamentale insignificanzache non dice nulla o dice poco del Vangelo, mortificando quell’annunzio che Paolo VI così tratteggiava: «evangelizzare è raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonte ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno di salvezza» (Evangelii Nuntiandi, 19).
Allora, carissimi fratelli e sorelle, quest’anno il mio augurio natalizio, per me e per voi tutti, è quello di poter riscoprire la bellezza e la forza del Kerigma apostolico. L’evento dell’Incarnazione, che ci approssimiamo a celebrare, evento sempre attuale e incredibilenella sua straordinarietà, possa rinsaldare il nostro rapporto con il “Dio con noi”, farcelo sentire presente nella nostra vita, così da riscaldare i nostri cuori e renderci capaci di autentica carità fraterna e di vera profezia: la profezia di chi sadi non essere mai solo e si sente consolato da Dio; la profezia di chi sa che Dio, incarnandosi si è introdottonella storia umana fecondandola con la Sua risurrezione e che, da quando questo, in quei luoghi santi, è accaduto, nulla è più come prima.
Confidando nella preghiera di tutti, a tutti assicuro la mia e, fraternamente e di cuore, vi benedico.
fra' Alberto Marangolo - Ministro provinciale